giovedì 5 gennaio 2012

Sono Punta, mi Ho diplomato (Prima Puntata)

Amici, ma soprattutto amiche del Taurinia, eccomi di nuovo qui, al rientro dalle pantagrueliche vacanze natalizie, per offrirvi l’ennesimo spaccato sul mondo del calcio dilettantistico.
Oggi parleremo di un ruolo fondamentale: la punta. La punta è croce e delizia di una squadra, la stella che riluce, il fiore all’occhiello, ma anche il giocatore più invidiato, insultato e malmenato. Non c’è niente da fare: la domanda più frequente (da dati Istat 2010) in vista della preparazione di una gara è “Ma chi hanno davanti?”. Certo questo è anche e soprattutto un discorso legato alla triste, lasciatemelo dire, abitudine molto italiana di badare più a non prendere gol, piuttosto che a farlo.
Ma tant’è. La punta, dicevamo. La punta è quello con il capello ingellato, possibilmente tirato indietro, possibilmente con un taglio medio-lungo. È quello più abbronzato, in qualsiasi momento dell’anno. È quello che tutti indicano, descrivendolo come “un gran fisico”, anche se è una mezzasega con due culi. È quello con la scarpa da passeggio all’ultimo grido e il cellulare che deve ancora uscire. È quello che sta assieme alla bionda vistosa in tribuna.
Ma è anche quello che se fa gol è un grande campione/fuoriclasse/bomber/cannoniere/falco dell’area di rigore/opportunista. Se non lo fa è una merda. Invariabilmente. Da nord a sud, da est a ovest. Se fa gol merita i soldi che prende. Se non lo fa, è un ladro/indolente/fannullone/bandito. Destino curioso, quello delle punte. Dalla polvere alle stelle, e viceversa, nell’arco di qualche minuto. Un’astronauta o un angelo decaduto. Dipende.
Ora, ci sono diverse tipologie di punta. C’è quella tecnica, quella veloce, quella potente, lo specialista nei colpi di testa, il rapace dell’area di rigore, ecc. Ma c’è una cosa che li accomuna tutti, almeno nella mia esperienza: l’ignoranza. Come disse Cammarata, non a caso punta e protagonista di un’onorata carriera da professionista, “un’ignoranza abissevole”, che il più delle volte sfocia nel grottesco. Porterò di seguito (e a puntate) alcuni esempi, a sostegno della mia tesi.
In primis, alfiere, il piatto forte della casa: David. Personaggio in verità atipico, fisicamente almeno: ovviamente gran fisico, ma capelli rasati, mai abbronzato e anzi carnagione cadaverica, da slavo e infatti mi resta il dubbio che fosse croato o quant’altro. Presentatoci come una scommessa, ci accorgemmo subito che chi aveva puntato non era una volpe: al primo allenamento del ritiro, il preparatore dice una frase che più retorica non si può, “Se c’è qualcuno che ha qualche problema, è pregato di dirlo, non rischiamo infortuni, i problemini diventano seri, ecc”. Il primo allenamento dell’anno: si suppone che tutti stiano bene. E invece no. Trenta secondi di corsetta, David alza bandiera bianca. Male al piede, non gli riesce di correre. L’infortunio più misterioso e veloce della storia. E invece no. Lo staff si accorge subito che l’alluce ha qualcosa che non va. E messo alle strette, confessa di essersi fatto male al mare, provando le rovesciate con gli amici.
Due mesi più tardi è già pronto per dare il proprio contributo. Buona tecnica, bel piede, potente. Un unico problema: una totale incapacità di giocare con i compagni. Cocciuto come pochi, pretendeva sempre di girarsi con il pallone nei piedi. Non mi ricordo un suo scarico a un centrocampista. Oltretutto tendeva a innervosire e scaldare l’ambiente. In perenne guerra con avversari, compagni e arbitri, soleva dire la fatidica frase: “Oh arbitro, guarda che ci facciamo male, qui c’è gente che domani va a lavorare!”. Oppure per spronare la squadra: “Dai raga, siamo undici contro undici!”. Mai capito il senso. Forse era un suo modo per dirci che sapeva contare.
Allergico agli allenamenti, ogni suo viaggio verso Piobesi era un’avventura. La poca voglia di allenarsi subì un durissimo colpo quando gli ritirarono la patente: trovato ubriaco a mezzogiorno dopo una mattinata a base di limoncello.
Ma fu una domenica di campionato a regalarmi la certezza di avere a che fare con una punta di diamante. Ci troviamo per il pranzo, David come spesso succedeva, non arriva. Partiamo, raggiungiamo il campo, entriamo negli spogliatoi. Una volta dentro, sentiamo il rumore dello sciaquone del bagno. Ne esce David, viso un po’ stravolto, mano sullo stomaco, ci fa: “Ciao raga! Ho preso una pizzetta dal cinese, un mal di pancia…”.
L’atto supremo però si verificò all’ultima giornata. Bastava un punto per ottenere una salvezza miracolosa e diciamocelo, eravamo già d’acco…da cosa nasce cosa. Il mister parla prima della partita: “Allora il primo tempo ce la giochiamo. Poi nel secondo tempo vediamo come stanno le cose. Ok? Chiaro?”. Silenzio assenso. Una mano però si alza. È David: “Mister, io non ho capito”. Viveva in un mondo tutto suo. Se qualcuno gli avesse chiesto quanti punti avessimo in classifica, sono sicuro che non sarebbe stato in grado di rispondere.
Comunque entriamo in campo e abbiamo subito la certezza che non aveva capito per davvero. Comincia come al solito a fare la guerra con i difensori, arbitro, tutti. Tanto che gli avversari minacciano di far saltare il banco. Panico. Negli spogliatoi il mister lo sostituisce. Noi aggiustiamo la situazione e siamo salvi. Grande festa negli spogliatoi, baci, abbracci. Ma David non c’è. Si è offeso e se ne andato. Antropologicamente diverso dal resto della razza calcistica.

By OMAR Gattuso